Quando Plinio il vecchio (23 - 79 D.C), esplorò gli aspri promontori della terra di Balbia, antico nome dei territori circostanti Altomonte e Lungro, il salgemma, a quei tempi rigoglioso in maniera straordinaria, riaffiorava sulla superficie sabbiosa di una conca circondata da montagne che chiudevano il sito rendendo l’ambiente ombroso e molto umido e quindi fugacemente baciato dai raggi del sole. In quel invaso naturale, si sarebbe sviluppato poi, a distanza di un millennio circa, il giacimento salifero di Lungro, una delle più estese e importanti miniere di salgemma d’Europa. Probabilmente la salina era conosciuta ai tempi della Magna Grecia. È verosimile che gran parte dello splendore economico della città di Sibari (720 a.C. 510 a.C.), derivasse dallo sfruttamento della miniera di salgemma di Lungro. E’ noto come i Sibariti si spinsero con nelle impervie gole della catena montuosa del Pollino alla ricerca di risorse minierarie. Da alcuni reperti archeologici rinvenuti recentemente in località Karroqa e Gjurma, (cocchi, vassellame e monete) è facile risalire alla presenza di un insediamento greco nel territorio lungrese giustificato chiaramente dallo sfruttamento del giacimento salifero. Con l’edificazione dell’abbazia basiliana di Santa Maria delle Fonti fondata nel 1156, il sito assunse maggiore rilievo è costituì, per i monaci baroni e le popolazioni del distretto, una importantissima fonte di sostentamento. Fin dal regno degli Svevi il sale di Lungro fu dichiarato argomento di rendita dello Stato e come tale si emanarono sin d’allora parecchie disposizioni riguardanti la vendita e l’uso del minerale. Alla morte di Federico II (1250) la miniera passò di proprietà ai signori che vennero dalla Francia al seguito di Carlo I d’Angiò. Quando la salina venne poi affidata ai Sanseverino, si era già verificato l’insediamento albanese nel territorio. Con la ripopolazione della zona, la miniera venne sfruttata in maniera più proficua. I transfughi albanesi adoperarono per primi l’estrazione del sale in profondità e puntellarono le gallerie con travi di legno. In realtà, anche le tecniche sperimentate dagli albanesi per l’estrazione del sale, erano molto caotiche e senza una specifica direttiva che sfruttasse in modo redditizio le potenziali risorse del giacimento. Dovettero trascorrere molti anni prima che venisse emesso un regolamento per l’estrazione del minerale che arrivò nel 1811 sotto Murat. Più tardi, nel 1825, vennero proposti alcuni miglioramenti con la realizzazione del pozzo Galli che migliorò la circolazione dell’aria e l’opportuno scolo delle acque. Nel 1883 venne realizzato il pozzo Bellavite e il nuovo fabbricato, e vennero tracciate anche le planimetrie dei fabbricati e delle gallerie del giacimento. Le condizioni di lavoro degli operai addetti all’estrazione mancavano delle più elementari norme di sicurezza. Il sale che veniva estratto in maniera caotica, veniva caricato a spalla e trasportato a piedi dai minatori seminudi che dovevano salire più di 2000 scalini intagliati nel salgemma per portare il carico a destinazione. Questi scalini si sviluppavano in tortuosissime rampe che raggiungevano i 260 metri di profondità, disposti in cinque piani e divisi dai cantieri di estrazione. La quantità di sale che se ne ritraeva, prima della chiusura, era di 70 mila quintali e veniva consumato nelle province di Cosenza, Catanzaro e della Basilicata.